L’autrice riprende, in chiave poetica, la sua osservazione del profondo

Olga Karasso: “Un gradino dopo l’altro”

  Cultura e Spettacoli  

Olga Karasso inizia adolescente a occuparsi di letteratura scrivendo poesie e racconti. Pubblica giovanissima una raccolta di poesie “Verdi malinconie”, edita dal Convivio Letterario. Affascinata dalla “Négritude” traduce per Guanda, insieme a Franco De Poli, poesie di Léopold Sédar Senghor e alcuni poeti bulgari.

Redattrice tra l’altro della rivista di letteratura internazionale Il Canguro, collaboratrice esterna di un noto quotidiano scrive articoli di critica letteraria su scrittori e poeti stranieri, poetessa premiata in vari concorsi, invitata a simposi letterari all’estero, si allontana dall’ambiente ricomparendo molti anni dopo con il libro Ibis edito da Team 80 Ed., un viaggio mistico e inquietante della memoria in omaggio a due generazioni di intellettuali del XX secolo. Segue il romanzo psicologico Esperanza, edito da Anima Ed., un altro filmato della memoria su uno spaccato della tenera generazione del “Capitale che si rincorre la coda”.

Rispetto ai suoi romanzi psicologici incentrati sull’osservazione del profondo, con la poesia Olga Karasso può permettersi una vena ancora più essenziale e graffiante. E’ una poesia surreale e anche politica di quella politica che corre oltre gli schieramenti, oltre il pensiero ordinario.

Oltre la storia ufficiale che ci è stata raccontata.

“L’Europa pianse./ E la ripresa. / Ognuno contò i suoi morti./ Passammo anni a fare/ funerali.” Un sofferto tentativo verso una libertà dai pianificati condizionamenti mentali perché tutto è commedia tragica commedia dei ruoli: partecipe dell’universo ma staccata in un “Semplice deliziante gusto di esserci/ senza esserci.”

Leggendo le 70 liriche raccolte nel libro “Un gradino dopo l’altro”, Otma Edizioni, e che appartengono a diversi periodi della sua vita, si ha la sensazione che l’autrice sia mossa quasi dall’afflato di un pittore ribelle che usasse questa volta forti pennellate di parole per dipingere avvallamenti e ascensioni dell’anima – qualora l’anima esista – nel faticoso perfezionamento del suo tragitto di esperienze un gradino dopo l’altro in una vertiginosa scalata di una montagna brumosa di strapiombi la cui cima fosse solo intuibile. L’estremo bisogno di ritrovare l’umanità del vivere anche “fra cemento e leghe di metallo”. Un senso. Un Dio negato tra guerre e falsi attaccamenti.

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