Il 15 gennaio esce Inno, il suo nuovo disco di Gianna Nannini, 12 brani composti nei primi due anni di vita della figlia Penelope.
La Nannini racconta della nascita dell‘album, della società che vorrebbe e del miracolo delle donne a Vanity Fair, che le dedica la copertina del numero in edicola da ieri mercoledì 9 gennaio.
Ho chiamato il disco Inno perché è un inno alla rinascita. – dice la Nannini - Non c’è rinascita se non c’è morte. Le prime canzoni le ho scritte appena nata la bambina, in un momento di grandissima felicità. Poi ho perso tre amici carissimi (tra cui Danny, a cui è dedicato un brano) e ho sentito il contrasto forte tra la gioia della nuova vita e il dolore della perdita. Solo accettando e ricomponendo tutto si rinasce. Il ciclo della vita assomiglia molto a quello dell’amore, anche lì c’è la nascita e la perdita. Gli inni dovrebbero raccontare questo, altro che "Fratelli d’Italia".
L’inno è una canzone in cui riconoscersi e quello di Mameli, con tutto il rispetto, non mi piace: parla di un’Italia che non c’è più, è ora di cambiarlo. – prosegue la Nannini nell’intervista - Fatelo scrivere alle sorelle d’Italia, fatelo scrivere a me. Perché l’Italia, per uscire dalla regressione culturale e politica in cui è caduta – il dualismo della Seconda Repubblica, quel metterci gli uno contro gli altri che ha solo creato il nemico, l’inciviltà, il razzismo, l’omofobia –, ha bisogno anche di un nuovo inno.
Alla domanda” ma perché, invece di candidarsi a riscrivere l’inno, non si candida in politica?” la Nannini risponde: Non sarebbe una cattiva idea. Se lo facessi non sarebbe certo all’interno dello schema tradizionale destra-sinistra che ci ha già dato troppi anni di governi-troiaio.
Nell’intervista pubblicata da Vanity Fair, alla domanda “in che modo pensa di aiutare le donne?” la Nannini risponde: Semplicemente ribellandomi a questo vittimismo femminile secondo cui, dopo i quaranta, il corpo di una donna non è più buono a fare nulla, né il sesso né i figli né la carriera. Non parlo di maternità, parlo di tutto. E non ne faccio solo un discorso di società e modelli culturali, è prima ancora una questione di consapevolezza: le donne devono cominciare a vincere dentro la loro testa. Il pensiero che una donna è una vittima a me non va giù, a me la parola “femminicidio” non sta bene. Definirli femminicidi non basta a fare leggi migliori. E non servono solo punizioni, serve un’educazione diversa. Per le donne e per gli uomini. Anche i maschi: perché condizionarli ad averlo ritto tutto il giorno?